Mario NAPOLI

Mario NAPOLI

Associazione Avvocati del Piemonte e della Savoia

Asti, 19 ottobre 2024

L’equo compenso

Vi anticipo che dividerò il mio intervento in due parti: la prima parte (durante la quale vi autorizzo sin d’ora a sonnecchiare, dal momento che tutti vi sarete certamente letta la legge) sarà dedicata ad una succinta esposizione della legge n. 49 di quest’anno: la seconda, invece, vorrebbe cercare di delineare un piano di azioni che l’approvazione della legge sull’equo compenso mi sembra autorizzare e che forse non sono state considerate dal Legislatore. In altre parole, ho l’impressione che a quest’ultimo la situazione sia un po’ sfuggita di mano: meglio così se sapremo approfittarne.

Equo compenso: cos’è

Il provvedimento sull’equo compenso si compone di 13 articoli.

L’equo compenso è definito dall’articolo 1 della nuova legge come la corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, nonché conforme ai compensi previsti:

  • per gli avvocati dal D.M. N. 147/2022.

Perché sia equo, il compenso deve rispondere, quindi, a due requisiti: essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto ed al contenuto e alle caratteristiche della prestazione, nonché conforme ai parametri; se manca uno dei due requisiti il compenso non è equo.

A me pare che si tratti più di apparenza che di sostanza e mi chiedo come sia possibile dire che ci siano casi in cui la stretta applicazione dei nostri parametri possa condurre a compensi iniqui. In linea di stretta lettura della norma (l’art. 1) si potrebbe sostenere l’iniquità dei parametri senza con ciò volersi sostituire alla Legge: per esempio, in campo stragiudiziale, l’applicazione delle percentuali sul valore del contratto o dell’operazione societaria può essere in eccesso o in difetto. Talvolta l’assistenza alla conclusione di un contratto da € 30 milioni può valere molto di più in termini di responsabilità, qualità e quantità del tempo impiegato del compenso previsto di €    , in altri casi può apparire esagerato perché spesso il valore non è un buon indice di complessità e difficoltà (ci possono essere contratti di scarso valore davvero complessi e viceversa). Ho visto parcelle davvero esagerate (spesso in applicazione di success fee), al limite della violazione della regola del divieto di compensi manifestamente sproporzionati previsti dall’art. 29 del nostro codice deontologico, per operazioni tutto sommato veloci e non particolarmente complesse ma di importo rilevante; e viceversa.

Mi pare, comunque sia, che i parametri siano indice di equo compenso, salva la prova contraria.

L’equo compenso trova applicazione ai rapporti professionali che hanno ad oggetto la prestazione d’opera intellettuale (art. 2230 c.c.), regolate da convenzioni e relative allo svolgimento anche in forma associata o societaria delle attività professionali rese in favore di:

  • imprese bancarie assicurative e loro controllate;
  • imprese con più di 50 lavoratori;
  • imprese con ricavi annui superiori a 10 milioni di Euro;
  • pubblica amministrazione e società a partecipazione pubblica.

Sono escluse dall’ambito di applicazione della nuova disciplina le prestazioni rese dai professionisti a società veicolo di cartolarizzazione e quelle rese in favore di agenti della riscossione. Non ho francamente capito perché, forse la ragione è legata ad una supposta ripetitività dell’attività riscossiva.

Clausole e pattuizioni nulle

La nuova legge sancisce la nullità delle clausole che compromettono l’equità del compenso, senza ovviamente che tale nullità comprometta l’intera convenzione professionale destinata a rimanere valida per tutto il resto delle pattuizioni.

Oltre alle clausole che indicano direttamente il compenso, sono nulle:

  • le pattuizioni che vietino al professionista di pretendere acconti nel corso della prestazione o che impongano anticipazione di spese;
  • le clausole o pattuizioni anche in documenti distinti dalla convenzione che: riservino al cliente la facoltà di modifica unilaterale del contratto, la facoltà di rifiutare la stipulazione in forma scritta degli elementi essenziali del contratto, la facoltà di richiedere prestazioni aggiuntive gratuite, l’anticipazione delle spese al professionista o la rinuncia al rimborso, la previsione in termini di pagamento sopra i 60 giorni dalla fattura, la previsione in caso di nuovo accordo sostitutivo di applicazione dell’eventuale compenso inferiore pattuito anche agli incarichi perdenti, non ancora definiti o fatturati; la previsione che il compenso pattuito per assistenza e consulenza in materia contrattuale spetti solo in caso di sottoscrizione del contratto; la clausola che obbliga il professionista a corrispondere al cliente o a terzi, compensi, corrispettivi o rimborsi per l’utilizzo di software, banche dati, gestionali, servizi di assistenza tecnica, di formazione etc. Nulla pure la clausola che riconosce all’avvocato il solo minor importo previsto dalla convenzione, quando il giudice liquida al cliente le spese legali, in misura superiore al detto importo.

Mi pare che una considerazione finale si imponga, che sarà rilevante pe quanto vi dirò nella seconda parte della mia chiacchierata: il legislatore ha voluto fare riferimento alla sostanza e non solo alla forma, altrimenti è evidente che io posso sottoscrivere una convenzione professionale perfettamente in linea con l’equo compenso e prevedere a parte la restituzione, in forma varia, di parte del compenso che percepisco. Principio di non trascurabile importanza.

Permettetemi ora di accennare brevemente ad alcuni altri aspetti della legge, dico brevemente perché si tratta di profili che necessariamente verranno trattati nella seconda parte della mia relazione, quella che più mi sta a cuore e che spero che sia qualcosa in più di una semplice ripetizione delle disposizioni di legge quale è questo esordio.

Azione giudiziale del professionista

L’azione a tutela del professionista potrà essere promossa davanti al Tribunale del luogo di sua residenza o domicilio, impugnando la convenzione, il contratto, l’esito della gara, l’affidamento, la predisposizione di un elenco di fiduciari o qualsiasi altro accordo che preveda un compenso inferiore ai valori determinati. La domanda sarà finalizzata a far valere la nullità della pattuizione e la richiesta di rideterminazione giudiziale del compenso per l’attività professionale prestata.

Indennizzo a favore del professionista

Oltre a rideterminare il compenso e condannare il cliente al pagamento della differenza tra equo compenso e quanto versato, il giudice potrà condannare il cliente anche al pagamento di un indennizzo a favore del professionista fino al doppio della differenza, salvo il diritto al risarcimento del maggior danno [?].

Presunzioni e prescrizioni

La nuova legge semplifica l’onere probatorio del professionista che intende tutelare il diritto a ricevere un compenso equo, introducendo una presunzione semplice in base alla quale gli accordi preparatori o definitivi, purché vincolanti per il professionista, si presumono unilateralmente predisposti dalle imprese stesse, salva prova contraria.

Anche in materia di prescrizione la nuova legge introduce disposizioni in favore per l’avvocato. Per quanto riguarda il diritto di compenso si prevede che la prescrizione decorra dal momento in cui cessa il rapporto con l’impresa. In caso di pluralità di prestazioni rese con un unico incaricato, convenzione, contratto, etc.., la prescrizione decorre dal giorno del compimento dell’ultima prestazione, tranne il caso di prestazioni aventi carattere periodico.

Per quanto riguarda, invece, la prescrizione dell’azione di responsabilità professionale dell’avvocato il termine decorre dal giorno del compimento della prestazione da parte dell’avvocato (art. 6)

Parere di congruità come titolo esecutivo

Altra rilevante novità a tutela dei professionisti, è nella possibilità di esigere i compensi, avvalendosi, (in alternativa al decreto ingiuntivo o al recupero del credito con la procedura di cui all’art. 14 del D. lgs. N. 150/2011), del parere di congruità emesso dall’ordine o dal collegio professionale, sui compensi o sugli onorari richiesti.

Al parere di congruità è riconosciuto valore di titolo esecutivo, anche per tutte le spese sostenute e documentate, purché rilasciato nel rispetto delle norme sul procedimento amministrativo e a condizione che il debitore non presenti opposizione all’autorità giudiziaria entro 40 giorni dalla notificazione del parere a cura del professionista.

L’eventuale giudizio di opposizione, instaurato ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c., si svolge con le forme di cui all’art. 14 D.lgs. n. 150/2011, davanti al giudice competente per materia e per valore, del luogo in cui ha sede l’ordine o il collegio professionale che emesso il parere.

Certamente, il rito viene alleggerito ed è, ipoteticamente, più rapido: mi pare, tuttavia, che quando pensiamo di avere a che fare con un cliente cattivo pagatore, varrebbe la pena di considerare anche l’ipotesi di iscrivere una procedura arbitrale semplificata. Alla Camera Arbitrale del Piemonte e della Valle d’Aosta in tre mesi si ha un giudicato sul compenso.

Class action a tutela dei professionisti

La nuova legge consente anche la class action a difesa dei diritti individuali omogenei dei professionisti, secondo le forme disciplinate dal titolo VIII bis del libro quarto del codice di procedura civile. Ferma restando la legittimazione del singolo professionista, l’azione di classe può essere proposta dal Consiglio nazionale del relativo ordine professionale o dalle associazioni maggiormente rappresentative.

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Ed eccoci ora ad alcune considerazioni conclusive, un programma delle iniziative da porre in essere, una sorta di cahier des charges et un programme de traveaux à faire.

Il punto di partenza è quello che oggi il nostro sistema ha una legge approvata dal nostro Parlamento e promulgata dal nostro Presidente della Repubblica che sancisce il diritto dell’avvocato, quanto meno nei confronti di taluni clienti, ad un equo compenso e dichiara la nullità di un compenso inferiore ai nostri parametri (lasciatemi semplificare); in altre parole vi è una legge che sancisce la presenza di un abuso da parte di una posizione economica forte e dominante nei confronti di un libero professionista, insomma una asimmetria negoziale (in taluni casi poco spiegabile: vi sono anche solo in Italia studi legali che hanno più di 10 volte di lavoratori “monomandatari” e fatturano 15/20 volte il limite indicato nell’art. 2: ma tant’è).

Diciamolo, si tratta di una netta inversione di tendenza rispetto al fenomeno delle liberalizzazioni che hanno interessato il mercato dei servizi negli ultimi anni. Nel 2017 fu proprio l’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato a far pervenire alle Camere una segnalazione di netta contrarietà alle norme sull’equo compenso, ritenute una surrettizia reintroduzione dei minimi tariffari.

Tale asimmetria negoziale risulta però di difficile denuncia da parte del singolo libero professionista, ma anche da parte degli studi legali strutturati, perché il rischio di perdere un cliente (malpagante sì, ma spesso determinante per la sopravvivenza dello studio) è troppo forte e non può essere corso.

E’, dunque, necessario che il ruolo di “nave rompighiaccio” in questa pericolosissima navigazione sia assunto dalle istituzioni in modo tale che nella scia così segnata anche i singoli avvocati si possano avventurare: diversamente assisteremo a delle iniziative individuali soltanto alla fine del rapporto e soltanto nel termine di prescrizione dei tre anni dalla chiusura della pratica.

Come può muoversi la nave rompighiaccio del nostro Consiglio nazionale e delle associazioni maggiormente rappresentative?

A me pare che le possibili direzioni sono tre, in ordine crescente, di importanza.

La prima riguarda l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust): ora che c’è una legge (che certamente sarà segnalata dall’Antitrust al Governo, al Parlamento come provvedimento che introduce restrizioni della libera concorrenza) occorre abbandonare la posizione difensiva sino ad oggi tenuta e studiare la possibilità di richiedere una indagine conoscitiva (prerogativa dell’Autorità ai sensi dell’art. 12 della legge 287/90) nei settori indicati a rischio dalla nuova legge (bancario, assicurativo) per verificare l’esistenza o meno di accordi per trattare al ribasso il rapporto con i legali, non consentendo così l’accesso a tale mercato rispettoso delle nuove regole fornite dal Legislatore. E’ quasi certo che una tale iniziativa non produrrà alcun risultato ma anche una omissione o rifiuto di indagine assumerebbe oltre che una chiara rottura rispetto al passato da parte degli Ordini (ancora meglio se concordata con altre istituzioni ordinistiche), una decisione più difficile alla luce di una disciplina radicalmente modificata.

La seconda riguarda una richiesta collaborazione agli iscritti per la predisposizione di una o di una serie di azioni di classe ai sensi degli art. 840 bis e seguenti del nostro codice di procedura civile …..

La terza direzione verso la quale indirizzare le iniziative istituzionali, per me la più rilevante, è quella deontologica nella quale siamo padroni noi e che è addirittura sollecitata (meglio detto: è imposta), dal quinto comma dell’art. 5 della legge 49/2023.

“Gli ordini e i collegi professionali adottano disposizioni deontologiche volte a sanzionare la violazione, da parte del professionista, dell’obbligo di convenire o di preventivare un compenso che sia giusto, equo e proporzionato alla prestazione professionale richiesta e determinato in applicazione dei parametri previsti dai pertinenti decreti ministeriali, nonché a sanzionare la violazione dell’obbligo di avvertire il cliente, nei soli rapporti in cui la convenzione, il contratto o comunque qualsiasi accordo con il cliente siano predisposti esclusivamente dal professionista, che il compenso per la prestazione professionale deve rispettare in ogni caso, pena la nullità della pattuizione, i criteri stabiliti dalle disposizioni della presente legge”.

Io credo che quanto prescritto dall’art. 5 vada inserito all’art. 25 del nostro Codice Deontologico, ragionevolmente dopo il secondo comma che vieta il patto di quota lite.

Ma vi è un ultimo punto sul quale vorrei intrattenermi perché è un mio cavallo di battaglia, purtroppo sino ad ora inascoltato: l’approvazione della legge 49/2023 rappresenta una occasione imperdibile, direi legalmente imposta, per modificare l’art. 24 C.D. perché altrimenti la nuova disciplina diverrebbe lettera morta. E vediamo ora perché.

Uno straordinario strumento per evitare di applicare la nuova disciplina è dato dalla possibilità di prevedere la presenza di un socio di puro capitale nei nostri studi legali: ed, in effetti, sono state proprio le istituzioni bancarie ed assicurative a percorrere questa strada.

Quali sono i passi da attuare? La banca entra nel nostro studio, non importa con quale percentuale (comunque può essere fino al terzo) e magari (ma non è indispensabile) nomina un suo rappresentante nel CdiA a cui delega i poteri.

Nello statuto dello studio (o nei patti parasociali a parte, è indifferente), viene inserita una clausola (origination fee) che prevede che, nella distribuzione degli utili, l’80-90% viene preliminarmente attribuito al socio che ha portato la pratica. A questo punto la banca dà un incarico allo studio nel quale partecipa rispettando al 100% quanto previsto dalla nuova normativa ma, in distribuzione di utile, si riprende non solo lo sconto che un tempo chiedeva agli avvocati ma anche quello che meglio ritiene.

La speranza di modificare l’art. 4 bis della nostra Legge Professionale, espressamente voluto da ABI e Confindustria è del tutto irrealistico (voi tutti ricorderete come, prima della modifica introdotta dalla legge 124/2017, era affermato un principio opposto) mentre alla modifica del nostro Codice Deontologico siamo noi legittimati, tanto più oggi quando si tratta di assicurare il rispetto della legge. E così è sufficiente l’introduzione di una incompatibilità che vieti all’avvocato che esercita la sua attività in forma societaria di prestare la sua attività a favore del socio della società che non rivesta la qualifica di avvocato.

Tale norma ovvierebbe anche ad una evidente lacuna della legge 4.8.2017 n. 124. L’art. 2359 cc definisce il controllo (e il collegamento) societario non solo in base alla disponibilità dei voti in assemblea ma anche in base ai vincoli contrattuali esistenti tra il socio e la società. L’affidamento in modo continuativo di mandati professionali dal socio di capitale alla società di professionisti potrebbe determinare il controllo della società stessa in capo al socio di capitale, anche di minoranza, realizzando per via indiretta proprio la situazione di controllo esterno che la legge 124/2017 vorrebbe evitare imponendo di mantenere la maggioranza ai soci professionisti.

La modifica proposta si presenta opportuna infine anche per regolare i profili problematici che lo svolgimento di attività per il socio non avvocato comporterebbe ai sensi dell’art. 37 codice deontologico forense.

La modifica dell’art. 24, già coerente con l’art. 23 C.D. che prevede che dopo il conferimento del mandato l’avvocato non deve trattenere con la parte assistita rapporti economici e commerciali di qualsiasi natura (e quale più stretto rapporto di chi deve dividersi gli utili?), ci porrebbe al riparo da scorciatoie di facile attuazione per scavalcare l’equo compenso e far rientrare dalla finestra quel che si è espunto dalla porta.

Con la stretta osservanza della legge ci saremo liberati di quello che io giudico il più grave rischio per l’esercizio futuro della nostra professione che, non dimentichiamolo mai, deve essere libera.

Grazie dell’attenzione

Mario Napoli